Genova: territorio e fuga del mito fra poesia e musica

Genova: territorio e fuga del mito fra poesia e musica
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Di Paolo Alberto Valenti
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La lanterna ha acceso non solo speranze nei naviganti ma anche passioni e amori diventati musica

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La metamorfosi della luce di un porto all’alba? Alcuni poeti scandinavi l’hanno interpretata come il momento della morte: la sensazione irreale di un tramonto rovesciato fatto di aria pungente, buia eppure trasparente in cui la vita non è ancora tornata alla vita. Il fantasmagorico gioco della sospensione della realtà.

Un’alba sul porto di Genova è la dimensione che bisogna attraversare per ritrovare le fonti luminose nelle quali fluttua dal Novecento l’immaginario collettivo di diverse generazioni fra poeti e cantanti italiani.

L'ubicazione

Naturalmente cioè che fa della città questo luogo irreale è il non essere più alcuno luogo. Lo aveva espresso bene il poeta Giorgio Caproni che in una delle sue ultime poesie, scritte dopo un viaggio americano, toglieva qualunque valore alla localizzazione come solo le architetture di Genova possono fare: “Non conta l’ubicazione /il luogo, di stanza – sempre -/ è pura immaginazione”.

Caproni è uno di quelli che l’ha attraversata Genova, “tutta intera”. E non è stato il solo. La eco più recente di questa storia rientra nella colonna sonora permanente dei tanti cantautori che hanno estratto l’urlo e il lamento di una stagione o di un amore (Gino Paoli, Luigi Tenco, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, ma anche il milanese Giorgio Gaber).

Le radici di poesia e canzoni sono tutte lì nel porto che conserva il tiepido respiro della sua millenaria fatica, culmine di quel sistema di scogliere, ciminiere e vele che da levante a ponente accendono esiti turchini nel contorcersi degli sbocchi autostradali, violati dalla criminale incuria degli uomini.

"Genova che mi struggi, intestini carruggi"

Bisogna andar lontano. Tutto quel traffico che dalla zona portuale, da Sottoripa, i carruggi, è stato smistato nel ventre di Genova e poi incanalato nella multiforme metropoli, diventata urbano indifferenziato sulla costa ligure, è quello che ha nutrito le comete della poesia italiana dai primi del Novecento per poi armare le voci e le chitarre dei cantanti.

Pensiamo al poeta toscano Dino Campana, alla sua pazzia che era proprio quella di un’Italia affamata di tutto, di amore, pane e allegria. Un’Italia stracciona finita a Genova per compiere il salto mortale: catapultarsi oltre oceano. Almeno due grandi poeti toscani (Campana e Caproni) in epoche diverse passano da Genova e ne subiscono il fascino ferocemente mediterraneo, pungente e immediato. Altri, come il poeta emigrante Emanuel Carnevali (anche lui toscano) rappresentano quello che milioni di italiani poveri, pazzi o semplicemente sfortunati avrebbero sofferto in silenzio dopo aver varcato le soglie di Ellis Island a New York. Da qui si dipana una storia che è il retroterra delle due guerre mondiali, della lotta partigiana, delle battaglie sindacali, del tramonto industriale. Solo negli anni di piombo il canto musicale e poetico tocca il fondo della disperazione.

Ma in tutte le fasi che vanno dalla fine dell’Ottocento fino agli sgoccioli del secol breve Genova col suo porto e la Liguria restano lo sfondo di un imbattibile mito prima poetico e poi musicale che si è dissolto.

Assonanze napoletane

La “cazzimma”, termine napoletano che esprime un mix fra inquietudine, insofferenza alla stupidità, è tutto quello che i genovesi estrosi si contagiavano fin dagli anni Sessanta. “Quando arrivo’ James Dean – disse una volta in una intervista il cantautore Gino Paoli – di gente come lui a Genova ne avevamo almeno duemila”.

Il carissimo Camillo

In effetti il mito del ribelle non aveva bisogno di riferimenti esterni perchè di creativi insofferenti la Liguria ne aveva già prodotti: se Campana è ormai un poeta lontano, portatore di un fecondo disagio mentale Camillo Sbarbaro è il primo esempio di essere che nell’intimo e attraveso la poesia rompe gli ormeggi col passato anche in termini ideologici. Lui, poeta viandante e puttaniere, fonda quella poetica dell’attimo che con un riferimento precisamente sessuale farà cantare a Paoli qualche decennio dopo “tu sei un attimo senza fine”.

Con questo non si vogliono cercare le coincidenze più o meno casuali fra poesia e canzoni. A Genova la poesia ligure nella sua accezione universale è un tutt’uno con le canzoni che i cantautori hanno tratto dal loro ambiente naturale, quell’ambiente che li ha formati come ha formato i poeti; “Genova nome barbaro, Campana, Montale, Sbarbaro”.

La poesia che diventa musica

Le canzoni di una lunga stagione, diffuse dai media e ormai scolpite sul web, hanno effettivamente messo in orbita un coro nel quale tutti gli italiani si sono identificati.

Non interessa sapere se Paoli, Lauzi, De André abbiano avuto sul loro comodino i “Canti orfici” di Campana, i “Trucioli” di Sbarbaro o il “Terzo libro” di Caproni. Non c’è dubbio che “le donne ferme sul canto della via” di Sbarbaro facciano l’amore come “Bocca di Rosa”

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o le altre protagoniste delle canzoni di De André (“Via del Campo” .....).

Anche chi ha fatto l’amore sotto “Il cielo in una stanza” termina col celebrare il vertiginoso attimo del coito in modo limpido e pulito. “Come facevano gli antichi greci – puntualizzarebbe Sbarbaro - che per dire ‘fare all’amore’ dicevano letteralmente ‘essere giovani insieme’”.

L’esperienza musicale ligure conclude la perfezione del sentire di un’epoca il cui incipit è fatto dall’immensa lirica di Caproni intitolata ‘Alba’....”Amore mio, nei vapori di un bar / all’alba, amore mio che inverno / lungo e che brivido attenderti!/” Non conta dimostare che la poesia è la canzone. I valori profondi trovano sempre la strada per esprimersi ed esplodere. Ma il segreto di tutta questa storia compete curiosamente a un poeta parigino tanto antiaccademico come lo erano i poeti liguri.

Da Genova a Parigi

André Frenaud col suo poema di 207 mirabili versi intitolato “Il silenzio di Genova” compie un viaggio assoluto nella città portuale che non è più una città qualunque ma è l’infinito: “ Era l’alba o già la sera trapela?/ Cosa avevamo sperato che andiamo cercando? (...) La marmaglia ha fatto segno, stan per andarsene, / finita la giornata: prolungata la sventura./ Il mare, perché mai volevano ritrovare il mare,/ la fonte inalterabile vista dall’alto,/ il grosso donnone dalle gambe tozze/ e i ragazzi trascorrenti con lo sguardo il celeste?/ Salivano, bontà chiassosa, fino in paradiso/ fra gli ortaggi del convento, tra i fichi,/ o ti portava la funicolare/ verso la morte, di stagione in stagione?” (Genova – Populonia – Parigi, 14 agosto 1961 – 14 aprile 1962).

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