Quando gli Italiani erano migranti nei centri di detenzione, i padri separati dai figli

Quando gli Italiani erano migranti nei centri di detenzione, i padri separati dai figli
Di Lillo Montalto Monella
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Non è cronaca nazionale (censimenti su base razziale, migranti in centri di detenzione) né internazionale (separazione figli-genitori frutto delle politiche “tolleranza zero" contro l'immigrazione), ma Storia. Quando gli emiganti economici o politici eravamo noi

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Italiani rinchiusi nei campi di internamento, a migliaia, per la sola colpa di essere nati in Italia; italiani separati dai figli che combattono al fronte, servendo quello stesso paese che ha segregato col filo spinato i genitori, immigrati anni prima.

Non si tratta di un futuro distopico o di una storia immaginaria che prende le mosse dalle notizie di cronaca nazionale (censimenti su base razziale, migranti in centri di detenzione) o internazionale (separazione figli-genitori frutto delle politiche “tolleranza zero” contro l'immigrazione).

Si tratta di Storia con la S maiuscola, descritta in un servizio del Corriere d'Informazione, stampato in via Solferino nel febbraio 1950, edizione notturna, dal titolo: "Minori le prevenzioni contro l'immigrante italiano".

Parla di quando ad emigrare eravamo noi italiani per cercare fortuna in Australia.

"La precedenza e le preferenze sono sempre per gli Inglesi, ma essi non bastano, e allor sono stati accolti e seguitano ad essere accolti i «rifugiati» (le displaced persons) [...] "piccola parte delle rigurgitante mano d'opera europea", chiamata ma "che non usufruisce di alcuna facilitazione di viaggio".

Migranti economici, qualcuno li chiamerebbe oggi. Ma anche in cerca di asilo politico, in quanto molti dei nostri connazionali scappavano dal Fascismo e dal rischio di una nuova guerra in Europa, ricorda il sito The Conversation.

Un ritaglio tratto dagli archivi storici del Corriere della Sera. Copyright: Fondazione Corriere

Durante la guerra, scrive Claro Maccone da Sydney sul Corriere, "italiani e oriundi italiani - anche se avevano acquistato in precedenza la cittadinanza australiana - furono internati a migliaia, ed il numero si accrebbe allorchè, nel 1942, affacciandosi la minaccia di uno sbarco giapponese, l'Australia ravvisò negli italiani del Queensland l'infondato pericolo di una quinta colonna. Essi hanno sofferto moralmente, nei campi di internamento, specie per i lunghi anni di inedia, mentre avrebbero potuto essere adibiti a lavori utili o, meglio ancora, lasciati ai loro lavori ordinari a tutto vantaggio della produzione agricola ed industriale".

"E vi furono non pochi casi di padri, internati perché nati in Italia, i cui figli, nati in Australia, combattevano nell'esercito australiano".

Durante gli ultimi anni della Guerra, 7mila "nemici alieni" residenti nel Paese furono messi nei campi di internamento sulla base della nazionalità. Il 20% degli italiani in Australia subì questa sorte, si legge negli archivi nazionali. Assieme a loro tedeschi e giapponesi.

"L'afflusso di italiani negli anni Venti", si legge sul sito del governo del NSW, "unito all'ascesa del Fascismo in Italia, provocò un dibattito sull'immigrazione italiana nei vari parlamenti australiani. L'immigrazione italiana è stata vista in modo negativo e i dati sulla disoccupazione sono stati utilizzati per lamentarsi del crescente numero di italiani in Australia".

La "cattiva reputazione" degli italiani venne amplificata dagli organi di stampa.

"l metodo di identificazione, arresto e internamento furono formulati formulato nell'agosto del 1939, poco prima dell'approvazione della relativa legislazione. L'internamento venne effettuato su larga scala. Nella maggior parte dei luoghi avere sangue italiano fu considerato motivo sufficiente per l'arresto, indipendentemente dal credo politico. Nel 1942 il numero di italiani internati in Australia raggiunse il livello massimo di 3.651".

L'articolo integrale cortesia della Fondazione Corriere della Sera ⬇

Un ritaglio tratto dagli archivi storici del Corriere della Sera. Copyright: Fondazione Corriere

Si ringrazia Luca Culeddu, ricercatore di sociologia e antropologia sociale alla De Montfort University di Leicester

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