Giordania: l'impegno umanitario per i rifugiati siriani

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Isabelle Kumar, euronews: “La Giordania offre asilo a centinaia di migliaia di rifugiati in fuga dalla guerra in Siria. La nostra collega Sophie

Isabelle Kumar, euronews: “La Giordania offre asilo a centinaia di migliaia di rifugiati in fuga dalla guerra in Siria.
La nostra collega Sophie Claudet ha realizzato un reportage sulle dure condizioni dei profughi e su come la Giordania fa fronte alla sfida”.

La vita a Zaatari tra elettricità razionata e meno fondi

Dietro questo muro si estende il campo profughi di Zaatari, nel nord della Giordania, una decina di chilometri dalla frontiera siriana.

È diventato una vera e propria città, dalla sua apertura nel luglio del 2012. Oggi ospita circa 79.000 rifugiati siriani.

Today is the 3rd anniversary of #Zaatari's inception. Sometimes one image can summarise the whole humanitarian crisis pic.twitter.com/Q2rtsrvZ6I

— Za'atari Camp (@ZaatariCamp) 29 Luglio 2015

La maggior parte viene dal sud della Siria, in particolare dalla regione di Daraa, dove nel marzo 2011 prese il via la rivolta contro il regime di Bashar Al Assad.

Il campo viene gestito dalle Nazioni Unite e dal governo giordano. Le migliaia di tende montate quando arrivarono i primi profughi sono state sostituite da prefabbricati.

“Investiamo nelle infrastrutture per il campo semplicemente perché è più dignitoso e meno costoso”, spiega Hovig Etyemezian, direttore del campo di Zaatari. “Se il campo dura un altro anno, per noi sarà più conveniente investire adesso in acqua, servizi igienici ed elettricità piuttosto che continuare a gestire la situazione con un approccio da emergenza”.

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— Hovig Etyemezian (@HovigE) 26 Ottobre 2015

Hovig Etyemezian si sofferma a parlare con un anziano che chiede più elettricità. “Vorrei l’elettricità nel pomeriggio”, gli chiede. “Ma altre persone mi dicono che hanno freddo di notte e che hanno bisogno di far funzionare il riscaldamento”, gli risponde il direttore che ci spiega come l’elettricità sia razionata.

“Eravamo abituati ad avere l’elettricità sempre, ma non era sostenibile, la bolletta raggiungeva quasi un milione di dollari al mese, quindi abbiamo cominciato a razionarla”.

L’Onu ha raccolto meno del 40% dei fondi richiesti per le necessità di quest’anno e l’impatto si percepisce. Le famiglie fuggite dalle bombe cercano di adeguarsi alle condizioni precarie del campo.

“Ci siamo adattati alla vita qui, era troppo dura in Siria, a causa dei bombardamenti, degli aerei”, racconta Ibrahim Al-Khalil. “Qui i miei figli sono al sicuro, se vanno a cercare il pane per esempio, il piccolo o Hammoudeh. Laggiù era già difficile trovare il pane, a questo si aggiungeva il rischio di essere colpiti da una bomba”.

Ibrahim e la sua famiglia vivono in Giordania da oltre tre anni e mezzo. In Siria faceva l’agricoltore. “Mio figlio Bilal lavorava nei campi quando un carro armato ha lanciato una granata. È un miracolo che sia ancora vivo, davvero un miracolo…Se vedeste il suo braccio…..mostra il braccio”.

“Posso muovere un po’ la mano, ma non posso usarla per lavorare”, dice Bilal.

Molte famiglie lasciano il campo per ritornare in Siria, come la madre di Ibrahim che non riusciva ad adattarsi. Alcuni si sono trasferiti in altre località giordane o hanno intrapreso il viaggio verso l’Europa.

“Vorremmo andarcene, ma non è possibile – spiega
Fadwa Al-Khalil – serve il denaro, si deve poter prendere una casa in affitto, trovare un lavoro, ma non c‘è lavoro fuori dal campo”.

Gran parte delle famiglie resta perché c‘è un supermercato dove il cibo è gratuito visto che è fornito dal Programma Alimentare Mondiale.

Jonathan Campbell, funzionario del PAM, teme la carenza dei fondi: “Temo per la primavera dell’anno prossimo: se non abbiamo i finanziamenti necessari per soddisfare i bisogni basilari – e non parliamo di vita di lusso, ma di alloggi di base, spesso al di sotto degli standard, dell’istruzione per i bambini,essenziale per il futuro, di cibo e di acqua – credo che i siriani penseranno di non avere altra scelta che andarsene. Per me è quindi estremamente importante che i fondi continuino ad affluire, ma non sono sicuro che avverrà”.

La vita fuori dal campo, tra solidarietà e diffidenza

Zaatari è diventata una città, una comunità. Ma la maggior parte dell’oltre un milione di rifugiati siriani in Giordania preferisce vivere fuori dai campi profughi, nelle città giordane o lontano dal Paese in guerra.

Facciamo qualche chilometro per raggiungere Mafraq, una città dove i siriani possono contare ancora una volta sulla solidarietà del governo giordano e sugli aiuti dell’Onu.

Le prestazioni sanitarie negli ospedali sono gratuite. Qui l’anno scorso sono nati circa 3000 bambini siriani e quasi la metà dei pazienti è composta da rifugiati.

Una donna ha portato in ospedale il figlio di un anno e mezzo. “È nato qui in Giordania – racconta – e quando ho partorito non ho dovuto pagare. Qui la gente è molto gentile con noi”.

A Mafraq oggi i rifugiati rappresentano oltre la metà degli abitanti. Di fronte all’afflusso delle famiglie, il governo ha aperto le porte delle scuole a migliaia di bambini siriani.

“L’educazione è gratuita e anche i libri lo sono”, afferma un padre siriano. “Grazie a Dio le cose qui vanno bene”.

I bambini si alternano in classe: questo pomeriggio sono i siriani a frequentare le lezioni, i giordani sono venuti di mattina.

Ma l’arrivo dei siriani non è stato accolto con entusiasmo da tutti. “Qui erano iscritti molti giordani – racconta il direttore, Yacine Al-Hayan – ma quando abbiamo istituito il sistema delle due sessioni di insegnamento al giorno, alcune famiglie hanno ritirato i propri figli affinché potessero seguire una giornata intera di lezioni e li hanno messi in altre scuole dove non ci sono rifugiati. L’insegnamento dei giordani è stato influenzato dalla presenza dei siriani”.

Vivere fuori dai campi profughi costa: eccetto scuola e sanità, che sono gratuite, e gli aiuti alimentari dell’Onu sempre più precari, i siriani di Mafraq devono provvedere a tutto il resto.

Hanan, originaria di Damasco, dove faceva la casalinga, qui cerca di guadagnare qualcosa per la sua famiglia.

“Lavoro, cucino dei piatti orientali che vendo alla gente del posto”, racconta Hanan. “Non ho scelta, occorre adattarsi, e soprattutto qui non si può lavorare legalmente. Mio marito appena è arrivato ha cominciato a lavorare, ma è intervenuta l’ispezione. Qui a noi è del tutto vietato lavorare: se ci si fa scoprire si viene mandati direttamente nei campi profughi. Io non posso vivere nel campo, ci ho provato ma non lo sopportavo”.

Anche se è vietato lavorare, il marito di Hanan non smette di cercare. “Voglio cercare di lavorare di nuovo, ma di sera, quando non ci sono controlli”, afferma Mohammed Salloum. “In qualsiasi settore, come guardia, in un ristorante, in un bar”.

A Mafraq c‘è malessere in parte della popolazione, che considera gli stranieri come una minaccia in un contesto segnato da povertà e disoccupazione. C‘è chi lamenta la loro presenza nelle scuole, negli ospedali, e soprattutto nel mercato del lavoro.

“I siriani sono pronti a fare qualsiasi lavoro e a guadagnare di meno”, dice un gioielliere.

“Abbiamo perso molto – afferma un altro abitante di Mafraq -prima potevo guadagnare fino a 20-25 dinari al giorno, adesso arrivo appena a 10”.

Abbiamo discusso delle ripercussioni economiche della crisi siriana con il ministro della cooperazione internazionale, ad Amman.

Imad Fakhoury sostiene che la legalizzazione del lavoro dei siriani sia allo studio, che un giorno potranno ricevere lo stipendio e pagare le tasse. Ma la sua preoccupazione principale è la mancanza di aiuti internazionali.

“Siamo preoccupati perché osserviamo una certa stanchezza fra i donatori – afferma Fakhoury – continuiamo a mantenere la porta aperta, continuiamo ad aiutare economicamente i siriani e a integrarli in tutti i paesi e i villaggi della Giordania, perché ciò fa parte del nostro sistema di valori.
Osservando la questione da un altro lato, quando i rifugiati sono in Europa, all’Europa costa minimo quattro-cinque volte di più rispetto a quanto spenderebbe investendo nell’aiuto ai profughi nei Paesi confinanti con la Siria dove sarebbero più vicini a casa loro e da dove potrebbero più facilmente ricominciare a ricostruire il loro Paese, se tutto va bene, quando si presenterà l’opportunità”.

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