“Un piccione, appollaiato su un ramo, riflette sull’esistenza”. Un titolo, molto lungo, e che da solo potrebbe riassumere l’universo in cui è immerso
“Un piccione, appollaiato su un ramo, riflette sull’esistenza”. Un titolo, molto lungo, e che da solo potrebbe riassumere l’universo in cui è immerso questo racconto di Roy Andersson. La pellicola e quello che vuole esprimere è molto difficile da vedere, e lasciatecelo dire, addirittura impossibile.
In un susseguirsi di riprese a telecamera fissa, il regista svedese continua il suo ciclo, un film ogni 7 anni, e descrive la sua introspezione sull’assurdità della morte e della vita.
La finezza della trama sta nel gioco degli attori, molto teatrali, a volte farseschi e nell’evoluzione dei piani sequenza, che nulla hanno da invidiare all’universo di un Otto Dix o meglio ancora Georg Scholz.
È divertente, sinistro, macabro, anacronistico e totalmente folle.
Ci lasciamo catturare dal gioco di questa disperazione molto scandinava, così come lo ha fatto la giuria dell’ultima Mostra di Venezia che ha consegnato a questo piccione svedese il Leone d’oro.