La Grecia alla prova del cambiamento promesso da Tsipras

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Per oltre un anno, le donne delle pulizie greche licenziate dal ministero delle Finanze hanno incarnato le ingiustizie derivanti dall’austerità. Sono

Per oltre un anno, le donne delle pulizie greche licenziate dal ministero delle Finanze hanno incarnato le ingiustizie derivanti dall’austerità.

Sono alcune vittime dei tagli varati per rispettare le condizioni del piano di salvataggio da 240 miliardi di euro concordato con l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale.

Per mesi, sono rimaste accampate fuori dal ministero chiedendo di riavere il posto di lavoro. Infine hanno votato per Syriza, che prometteva di farle riassumere.

“Da quattro anni, in Grecia stiamo pagando per una crisi che non abbiamo provocato – afferma una di loro – Sophia Tsagaropoulou – Durante questa crisi, chi prima guadagnava un sacco di soldi ha continuato a fare affari, anche più di prima. Ma la classe medio-bassa, che non aveva alcuna responsabilità, ha pagato un prezzo altissimo. Di colpo, siamo stati catapultati dal paradiso all’inferno”.

Liberare la Grecia dall’inferno in cui è stata spinta dalle misure di austerità è l’obiettivo del nuovo primo ministro, Alexis Tsipras. Il suo partito, Syriza, ha ottenuto una larga maggioranza alle ultime elezioni, proprio in virtù della promessa di cancellare gli accordi presi con la troika.

Dall’insediamento del nuovo governo, l’Europa ha mantenuto gli occhi puntati su Tsipras, chiedendosi cosa abbia intenzione di fare. Con quali risorse conta di ripagare un debito pari al 176% del Pil, in un Paese dove più di una persona su quattro è disoccupata?

Tra le risposte indicate dal premier, una punta verso la lotta all’evasione. Una piaga che, secondo le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, costa al fisco greco la bellezza di 20 miliardi di euro in mancati introiti ogni anno.

Ma convincere gli evasori a pagare le tasse richiede tempo. Tanto più in Grecia, dove l’evasione fiscale è talmente diffusa da essere considerata, per così dire, uno sport nazionale.

Harry Theoharis, oggi parlamentare con il partito Potami, lavorava un tempo all’agenzia per la riscossione dei tributi. Si è dimesso a giugno a causa delle pressioni politiche. “Avevo capito che le nuove priorità del governo, diciamo di tipo più populistico, avrebbero ostacolato sempre di più il mio lavoro – spiega Theoharis – Per farle un esempio, prima di ogni elezione i governi tendono a essere più indulgenti con i cittadini che sono debitori al fisco. Invece di fare espropri o di costringerli a pagare – misure impopolari che sono dure da digerire – il governo ci chiedeva di essere più permissivi”.

Pur giudicando Tsipras onesto e determinato, Theoharis è convinto che il primo ministro sottovaluti le difficoltà che lo attendono: “Syriza ha il potenziale per essere diverso. Non è legato da vincoli politici come gli altri partiti perché è appena salito al potere. Ma la mia opinione è che avrà non pochi problemi a fare pulizia e a tenersi le mani libere per onorare gli impegni che ha preso con gli elettori”.

Quello dei trasporti è sempre stato uno dei settori più vitali dell’economia greca e lo è anche oggi: in numeri, corrisponde all’8% del Prodotto interno lordo e dà lavoro a mezzo milione di persone.

Qui non ci sono stati tagli. Nell’opinione comune, tuttavia, gli armatori sono spesso associati ai traffici illeciti di capitali all’estero e a benefici fiscali ottenuti sottobanco.

Una reputazione immeritata, secondo Michael Bodouroglou, che dirige un’impresa di trasporti fuori Atene. Secondo lui, le storture vanno ricercare nel settore pubblico: “Non ci sono benefici fiscali per le imprese navali – sostiene il presidente di Paragon Shipping – paghiamo le tasse proprio come lo fanno i nostri colleghi nel resto del mondo. Francamente, se ricevessimo benefici in questo Paese, allora molti dei nostri colleghi europei trasferirebbero qui le loro aziende, perché ne hanno diritto e per approfittare degli stessi vantaggi, che noi però non abbiamo visto. Il vero problema che spiega perché il Paese abbia accumulato un enorme debito che non può più gestire è che il settore pubblico è cresciuto a dismisura. Sono in troppi, costano troppo, e aggiungerei anche che sono molto inefficenti e non amano le imprese”.

Quando l’Eurozona è entrata in crisi, la terapia imposta a Paesi come la Grecia è stato il bailout della troika, in cambio di una serie di riforme. Quelle stesse riforme che si sono tradotte in tagli di stipendi e pensioni e in nuove tasse. Sacrifici inutili – secondo buona parte dei greci – perché non basteranno mai a ripagare il debito contratto.

Elena Panaritis era favorevole al primo bailout e oggi assiste il governo Syriza sui temi economici. Il problema – dice – è l’Europa che non cresce dal 2008.

“Abbiamo fatto un meraviglioso esperimento, chiamato euro o Unione europea, che ha funzionato fin tanto che c’era un surplus – spiega Panaritis – Quando le vacche erano grasse e davano latte, eravamo tutti felici. Ma ora che sono magre e che il latte è finito, non ci sappiamo adattare e la Grecia, che è il brutto anatroccolo, non ha più ossigeno. Invece di dire: dobbiamo uscire da questa buca per tornare a respirare, stiamo chiudendo ancora di più il tappo”.

I membri della troika sostengono che, di ossigeno, Atene ne abbia avuto in abbondanza: più di 240 miliardi di euro nel 2012, quando un secondo piano di salvataggio prevenne un’uscita del Paese dall’eurozona. Ma oggi che Tsipras definisce insostenibile il debito greco, si torna a parlare di “grexit”.

Jens Bastian, ex membro della task force dell’Unione europea per la Grecia: “Nelle ultime settimane c‘è stata una grande isteria sull’eventualità di un’uscita della Grecia dall’euro. Non voglio azzardare ipotesi, ma suggerisco che non è una buona idea mettere alla prova l’eurozona per vedere se sia meglio preparata ad assorbire il grexit. Dubito che lo sia. Si è data una nuova architettura, ha nuove risorse, ma non possiamo ignorare gli aspetti sociali e il processo democratico”.

Un processo democratico che coinvolge anche Dimitra Mandikou. Con tre figli a carico, ha perso tutto a causa della crisi: lavoro, salute, matrimonio, e presto rischia di perdere anche la casa in cui abita.

Ai governi precedenti, non perdona di aver salvato le banche e abbandonato i cittadini. Oggi, vive con trecento euro al mese e spera in Syriza. “Non ho mai preso soldi da nessuno, ho sempre pagato i miei debiti – dice – Non mi tiro indietro dalle responsabilità, ma tutti i problemi che ho avuto mi hanno tolto il sonno. Due anni fa, mi hanno diagnosticato un tumore: i dottori mi hanno detto che è stato causato da stress psicosomatico. A un certo punto, ho fatto quello che molti miei amici mi consigliavano di fare o facevano loro stessi: ho smesso di pagare. Non mi bastavano i soldi e poi mi sono detta: non siamo noi ad aver causato tutto questo, non possiamo più pagare. Fate quel che volete, non ci importa, metteteci in prigione. Fine della storia”.

Il pensiero di Dimitra è comune a tanti che hanno dato ascolto a Syriza e agli slogan anti-troika. E’ un atteggiamento che nasce dalla constatazione di un fallimento collettivo.

“Siamo stati le cavie di un esperimento – commenta, con rassegnazione, Sophia Tsagaropoulou – Lo hanno fatto a causa dei deficit e dei nostri problemi finanziari. Ma l’esperimento non è riuscito. Il paziente è deceduto”.

Mentre l’Europa e il governo greco si sforzano di rianimare il Paese, molti aspettano di tornare a lavorare. E di ritrovare quella dignità che Tsipras ha promesso di ripristinare quasi a ogni costo.

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