La gente di domiz

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Di Euronews
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Una serie di materassi fini allineati lungo i bordi della tenda. Una moquette e qualche coperta. E’ l’arredo della nuova casa di Hadya e della sua famiglia. In realtà non è una casa. E’ uno spazio anonimo ritagliato tra le tende del campo di Domiz, nel Kurdistan iracheno. Uno spazio bianco di plastica e ferro. Caldo d’estate, freddo d’inverno. Hadya è una curda siriana. Vive in quattro metri per sei insieme ai figli, al marito e alla nipotina. Sono in dieci.

Ha lasciato Damasco sotto le bombe. Ha vagato di città in città per poi arrivare in questa terra di nessuno. 143 ettari di deserto tra le montagne del Kurdistan. La città più vicina è Dohuk, a mezz’ora di macchina. Tutto intorno strade ed edifici in costruzione. Non sono per lei. Come gli altri sessantamila curdi siriani che vivono a Qui c‘è ancora chi crede in un Kurdistan unito., Hadya non ha un futuro in Iraq. E come lei, i suoi figli.
Hadya ci accoglie con una colazione che è un vero banchetto, fatta di quel poco che significa tanto. E’ nel campo da sette mesi e per lei questo pezzo di deserto inospitale, dove ti accecano le tempeste di sabbia e si insidiano gli scorpioni, è l’unica salvezza possibile via dalla Siria.

Ognuno ha una storia da raccontare. Ognuno ha la guerra negli occhi e una rassegnazione infinita. Le loro vite interrotte dal conflitto sono rimaste impigliate in un angolo di Iraq che non è Iraq. In un Kurdistan dove questi rifugiati sono stranieri pur essendo curdi. Perché qui te lo dicono tutti e subito: ci sono curdi e curdi. Tutti i campi di rifugiati sono lontani chilometri dalle città. Nessuno li vuole vicini. Domiz è l’unico campo in Iraq dove i rifugiati possono entrare e uscire. Eppure, pochi trovano lavoro e le condizioni, per i “fortunati”, sono dure. Chi va fuori non riesce a spolverarsi di dosso il senso di disprezzo che i “fratelli” curdi iracheni hanno nei loro confronti, i curdi siriani. Hanno abbandonato la patria senza difenderla, non meritano rispetto. Eppure a Domiz c‘è ancora chi crede in un Kurdistan unito.

Hadya non smette di girare il suo thé, anche se nel fondo non c‘è più zucchero. Ci racconta che la casa costruita con 9 anni di duro lavoro e fatiche è stata bombardata otto giorni dopo esserci entrata. Otto giorni. Le lacrime si mischiano al thé e allo zucchero. Poi ha fatto partire la figlia Rojda con la sorella e il fratello verso il sud del paese. Quando i bombardamenti sono diventati insostenibili, anche Hadya e il marito hanno abbandonato Damasco e sono arrivati qui a Domiz. Da allora Rojda non fa che disegnare carri armati, lacrime e morti. Ha 11 anni. La guerra ha fatto conflure a Domiz 60 mila destini.

credit: backpack reports/Monica Pinna
© Backpack reports/Monica Pinna

Ibrahim conosce ogni angolo del campo. E tutti lo salutano. Lo chiamano “il professore”. E’ lui che ci ha accompagnato tra i meandri di questa città di plastica. Lavora per l’Ong francese ACTED e si occupa della sicurezza e della protezione dei bambini nel Child Friendly Space e nello Youth Friendly Space. Due centri aperti dalla Ong con il sostegno dell’Unione Europea e i fondi del Premio Nobel per la Pace. Anche lui è rifugiato. Ha 23 anni, un sorriso contagioso e una cortesia mediorientale. E’ nel campo da febbraio. Non voleva lasciare la Siria. La sua famiglia è originaria di Qamishly, nel sud del paese, ma lui studiava a Homs. La prima città attaccata dal regime. Se n‘è andato per evitare il reclutamento nelle file dell’esercito o dei ribelli. I suoi studi sono risultati utili qui al campo. Per i ragazzi è un punto di riferimento, come lo sono gli altri educatori e insegnanti che restituiscono un po’ di infanzia a questi bambini tagliati fuori dal mondo.

Nessuno sa esattamente quanti siano qui a Domiz. I piccoli residenti del campo secondo l’UNHCR rappresentano la metà della popolazione. Quindi 30 mila. Le scuole sono tre, altre due sono in costruizione. Rojda, la figlia di Hadya, ha lo sguardo triste, i capelli biondi e i riccioli composti. Non ha trovato posto a scuola, ogni giorno pero’ frequenta il Child Friendly Space, dove dipinge, fa teatro, gioca, canta. “Un modo come un altro – dice- per non pensare, almeno per un po’”. Rojda ci racconta la guerra attraverso i suoi occhi e i suoi gesti. La paura dei soldati di Bashar Al Assad si disegna nell’aria con brevi gesti nervosi delle mani piccole e snodate. Le minacce al padre durante una visita dell’esercito alla ricerca dei ribelli del quartiere, diventano forme astratte lanciate tra il pollice e il medio, mentre le parole escono a fatica.

Neanche Omar va a scuola. Abbiamo incontarto anche lui al Youth Friendly Space. Il centro accoglie ragazzini più grandi ed è imrpontato allo studio più che al gioco. Omar è un adulto in miniatura. Ha 14 anni, i capelli a spazzola con tanto gel e le scarpe lunghe da grande. Ha un sorriso che fa tenerezza, lo sguardo visto e la voglia di imparare. Durante i mesi di conflitto passati a Damasco si è “abituato” alla guerra. “Dormivamo anche sotto i tiri degli elicotteri. Non importa quanti razzi tirassero”. La guerra per lui era diventata “normale”.

Anche Omar vive con la sua famiglia in tenda. Ha vicino a lui il padre, la madre e le sorelle. Nessuno si lamenta. Il papà Muhammed ha 59 anni e dice che nel campo si sta bene. Le condizioni sono difficili, ma “almeno – ci racconta – siamo al sicuro. Non importa se Omar ha già perso quasi due anni di scuola, “almeno è vivo e siamo insieme” conclude il padre.

Il campo rappresenta la salvezza lontano dalla guerra, nonostante i casi di criminalità e violenza siano in aumento. Le scarse condizioni igieniche provocano malattie intestinali e respiratorie e non solo ai più piccoli. Secondo Ibrahim, la nostra guida, “i bambini sono forti e si sanno adattare, ma se la vita nel campo dovesse durare a lungo, quest loro resistenza non basterebbe per farli tornare a una vita normale”.

Alla frontiera siriana, chiusa da agosto, migliaia di persone sognano la sicurezza oltreconfine. A Domiz ogni notte sessanta mila sopravvissuti, impigliati in un limbo senza tempo e senza opportunità, sperano solo di rientrare a casa, in pace.

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