Onu, Arabia Saudita rinuncia a Consiglio Sicurezza: non ferma le guerre

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Di Euronews
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L’Arabia Saudita rinuncia al proprio seggio nel Consiglio di sicurezza dell’Onu: “un organismo – afferma Ryad – incapace di evitare le guerre e risolvere quelle già in corso”. Affermazioni che tornano ad accendere il dibattito sull’opportunità di una riforma di cui si discute senza successo da un ventennio.

L’Arabia saudita era stata eletta per la prima volta giovedì dall’Assemblea generale al fine di integrare i membri non permanenti del Consiglio, insieme a Ciad, Cile, Nigeria e Lituania. Ma la decisione di non accettare il posto, una prima assoluta nella storia delle Nazioni Unite, ha spiazzato tutti; tanto più perché motivata da argomenti che in molti condividono, anche se preferiscono non esprimerli pubblicamente.

Il ministro degli Esteri saudita ha fatto esplicito riferimento al “sistema dei due pesi e delle due misure” che, a suo avviso, rende l’organo esecutivo delle Nazioni Unite “incapace di svolgere i
suoi doveri e di assumersi la responsabilità nei confronti del
mantenimento della sicurezza e della pace”.

A sostegno di queste accuse, il regno fa due esempi. Il primo è quello della Siria, dove è in corso una guerra fratricida costata la vita a oltre centomila persone. In due anni, il Consiglio di Sicurezza non è riuscito a raggiungere un punto di compromesso per esercitare la sua influenza e fermare il massacro, diviso com‘è tra i paesi occidentali, favorevoli a dure sanzioni contro il regime di Damasco, e Russia e Cina, schierate a difesa di Bashar al Assad.

Il secondo esempio è quello della questione palestinese, che è sul tavolo da 65 anni e che, secondo Ryad, incarna “la prova più evidente del fallimento del Consiglio”.

L’Arabia saudita afferma di battersi da anni perché vengano compiute le riforme necessarie a restituire funzionalità a questo organismo, nato per essere al servizio della sicurezza e della pace nel mondo. Un traguardo che tutti i membri dell’Onu dicono di condividere. Ma sulle riforme da adottare, le posizioni non potrebbero essere più distanti.

Dalla sua creazione, dopo la Seconda Guerra Mondiale, il Consiglio è rimasto immutato nella sua struttura: è composto da cinque Membri permanenti con potere di veto (Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina) e da dieci Membri non permanenti suddivisi per aree geografiche, eletti per mandati di durata biennale.

Tra i 193 membri delle Nazioni Unite, molti ritengono che la struttura del Consiglio non rifletta più la realtà di oggi. Ma, nel corso degli ultimi vent’anni, sono emerse due visioni sostanzialmente diverse. La prima propone l’istituzione di nuovi seggi permanenti, la seconda punta invece ad allargare quelli non permanenti. Quest’ultimo è l’orientamento dell’Italia e di altri Paesi, tra cui quelli del movimento “Uniting for Consensus”, secondo i quali andrebbe dato maggior risalto alle realtà regionali. In quest’ottica, l’Italia propone l’attribuzione di un seggio all’Unione europea.

Altri paesi, come la Germania, puntano invece ad ottenere un seggio per loro stessi tra i membri permanenti.

Comune a entrambi gli orientamenti è l’esigenza che ogni ipotesi di riforma si ispiri a principi di maggiore rappresentatività geografica, di più ampia partecipazione democratica e di maggiore efficienza operativa. In questa prospettiva, è generalmente accettato un riequilibrio della composizione del Consiglio a favore dei Paesi dell’emisfero meridionale, in particolare del continente africano.

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