Egitto: il timore di una guerra civile un anno dopo le prime elezioni democratiche

Egitto: il timore di una guerra civile un anno dopo le prime elezioni democratiche
Di Euronews
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“L’ultima battaglia dei Fratelli Musulmani”, titola uno dei giornali egiziani vicini all’esercito e c‘è invece chi teme una contrapposizione ancora più esacerbata.

I sit-in, sgomberati dalle forze di sicurezza erano iniziati sei settimane fa per chiedere il reintegro di Mohamed Morsi, deposto il 3 luglio scorso. “Un colpo di Stato”, hanno ripetuto incessantemente i sostenitori del primo presidente eletto democraticamente in Egitto, detenuto ora per altri 30 giorni in una località segreta.

Morsi – in carica dal giugno del 2012 – aveva poi esteso i propri poteri per decreto. Era stato questo uno dei motivi della sua destituzione, compiuta dal generale Abdel Fattah Al Sissi. Era stato lo stesso Morsi a insediarlo a capo delle forze armate.

Sugli scenari immediati è severo il commento del dimissionario Mohamed El Baradei. “A beneficiare dell’intervento realizzato con la forza è chi esorta alla violenza e al terrorismo”, ha detto il premio Nobel per la Pace.

Sophie Desjardin, euronews: Hasni Abidi, lei è uno studioso presso il Centro di ricerca sul mondo arabo e sul Mediterraneo di Ginevra. Ieri in Egitto è stato instaurato il coprifuoco, o sarebbe meglio dire reinstaurato. Ma, come ha confermato il nostro corrispondente al Cairo, i Fratelli musulmani non hanno intenzione di cedere. Che cosa può accadere?

Hasni Abidi, politologo: Purtroppo i segnali sono molto inquietanti su entrambi i fronti, esercito da un lato, Fratelli musulmani e loro sostenitori dall’altro. Instaurando il coprifuoco e lo stato di emergenza, le forze armate concentrano nelle loro mani ogni potere e limitano le libertà individuali, arrogandosi il diritto di effettuare arresti in qualunque momento. Sul fronte della Fratellanza, ci si può aspettare un moltiplicarsi delle occasioni di tensione che non si limiteranno a dei sit-in nelle principali città del paese.

euronews: Molti egiziani, compresi gli intellettuali, sostengono l’esercito, che a sua volta li ha appoggiati durante la prima rivoluzione. E’ uno strano legame quello che unisce il popolo a questa potente istituzione. Fin dove può spingersi l’esercito senza perdere consenso?

Abidi: Non bisogna dimenticare che l’esercito egiziano è un esercito di popolo, non è un esercito di specialisti come quello turco. Le forze armate sono presenti in tutti i settori dello stato e soprattutto nell’economia. Per l’egiziano medio, l’esercito è la migliore difesa per salvare l’Egitto dal rischio di un’implosione e anche da un’altra minaccia molto temuta, e cioé che il paese finisca sotto il giogo dei Fratelli musulmani.

euronews: Significa che l’esercito ha carta bianca?

Abidi: Purtroppo, esiste il rischio di una deriva, di una tentazione autoritaria. L’esercito ieri ha effettuato un colpo di mano. E le conseguenze sono terribili per la sua immagine, come dimostrano le reazioni internazionali certo non entusiastiche. Ciononostante, bisogna riconoscere che se l’esercito riuscirà a ripristinare la sicurezza e la stabilità, se riuscirà a riportare un po’ di ordine, allora credo che recupererà il consenso di cui godeva prima di questo episodio e rassicurerà anche gli egiziani che oggi – bisogna ammetterlo – sono più divisi che mai.

euronews: Quale può essere adesso la strategia dei Fratelli musulmani? La situazione ricorda un po’ l’Algeria degli anni Novanta. Esiste il rischio di una radicalizzazione in gruppi terroristici?

Abidi: Certamente le similitudini esistono e sono addirittura evidenti. Basti ricordare come l’interruzione del processo elettorale in Algeria, nel gennaio 1992, avesse spinto buona parte degli attivisti islamici a darsi alla macchia. Alcuni di loro fecero nascere movimenti radicali come il Gruppo islamico armato, o come il GSPC. Purtroppo in Egitto esistono già dei movimenti radicali: mi riferisco al Gama Islamya e alla Jihad islamica che in questo momento sono all’erta. Hanno perso la battaglia dei consensi dopo la primavera araba perché hanno visto i partiti islamici arrivare al potere per via elettorale e non attraverso la lotta armata. Ma i fatti di ieri e il colpo di stato contro il presidente Morsi forniscono ottimi argomenti a questi movimenti radicali: poco importa se gravitino o meno nell’orbita della Fratellanza, ora potranno dire che la partecipazione politica non è l’opzione vincente e che l’unica via percorribile è quella che passa attraverso le armi.

euronews: L’Egitto è un peso massimo nel mondo arabo. Esiste un rischio che la crisi travalichi le frontiere egiziane?

Abidi: Certamente. Gli estremisti islamici persistono nella stessa logica suicida e nella politica della terra bruciata perché sentono di avere perso. E questo atteggiamento sfinirà l’esercito che deve contenere troppo focolai, nel Sinai come in altre città, e che stenta a controllare i traffici di armi dalla Libia, dove di questi tempi transita di tutto. Se le forze armate continuano a occuparsi di politica finiranno per indebolirsi. Non possono che ritirarsi al più presto, restituendo l’arena politica ai civili, a Adly Mansour o a Hazem el Beblaoui. Credo che oggi la comunità internazionale sia di fronte all’imperativo morale e politico di non abbandonare gli egiziani al loro destino.

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